Avete presente quei filmati dove c’è un tizio che pedala, su una gravel magari, inquadrato dall’alto con un Drone? La scena ha ampio respiro, come dicono quelli bravi, serve per contestualizzare lo sforzo del nostro ciclista, impegnato a pedalare in mezzo al nulla, o su un ripido e roccioso pendio, o circondato da acqua, laghi, terra o sassi, l’infinito. Il drone si alza, sempre di più, il ciclista diventa piccolo, sempre di più, diventa un puntino quasi indistinguibile e non si capisce dove finisca la bici e inizi il ciclista, dove il telaio smette di essere acciaio e diventa tessuto, stoffa, polvere, carne, ossa, occhi. Il drone tutto vede ed è qui per farci sentire importanti, unici, molto grandi, oppure molto piccoli. La randonnée è come un vestito bagnato (e ogni allusione al clima abituale è puramente casuale), si allarga, si deforma, a seconda di dove ti trovi: sopra un ponte di legno, in mezzo ai binari del treno, nel centro di Mantova, a fianco di un’autostrada. Molto grande, molto piccolo, come i rapporti da scalare, un dente in più per sopravvivere, un dente in meno per sognare.

In soli due giorni con la Rando Imperator (e con la benedizione del Drone) si fa un ripasso veloce della geografia continentale: il ciclista piccolo riesce a pedalare a fianco di pareti rocciose alte come la fatica, ad annoiarsi lungo il biliardo dell’argine del Po, a ritrovarsi in mezzo a vigneti o frutteti o campi di grano già verdi. Scavalca passaggi a livello, sbircia nel retro dei giardini delle villette bavaresi, parte dal cancello di un circo dove gli animali dormono ancora per sfiorare castelli nobili, da Mantova a Ferrara, per vedere da lontano (il Drone da molto vicino, perché il Drone è il Drone e noi solo ciclisti molto piccoli) torri di appostamento sulla val d’Adige o verso il Garda, piazze ancora addormentate, negozi di ferramenta, centri commerciali, fiumi ingrossati dal fango che scende dalle alture, pizzerie e kebabbari in Tirolo, alberi della cuccagna issati in feste locali con i ragazzini attorno al fuoco acceso dentro un bidone, ristori dentro bicigrill, pizzerie al confine, campi da calcio austriaci dove se le danno di santa ragione, ignari che mentre l’arbitro fischia una punizione, cento metri più sopra (accade a Nauders, nulla di tutto questo è inventato) stanno passando ciclisti piccoli in picchiata verso l’ultima salita del Resia, confezionati dentro mantelline gialle, nere, blu, rosse, colori pieni, senza striature, colori pieni e onesti come un colpo di pedale rotondo, come un camper che ti aspetta in cima, come tutto quello che una randonnée in mezzo all’Europa riesce a farti vedere.

La potenza visiva di un percorso che parte da Monaco e finisce a Ferrara solo perché anche le storie belle devono avere un inizio e una fine, altrimenti partiremmo dal circolo polare artico per arrivare in Sudafrica, alla faccia del drone e dei brevetti, dei timbri e degli allenamenti mancati perché, narrano le cronache, «l’inverno del ’18 picchiava e picchiava e sembrava non volesse finire mai»: infinito come la via Claudia Augusta, come la storia che si ripete non come farsa ma come deviazione, con i droni al posto dei soldati romani a porre pietre, con l’asfalto che nelle foreste del Fernpaß si sgretola e torna terra, e ci fa sentire così piccoli da stare in tasca, così piccoli come la foto da appendere allo specchio in bagno, per ricordarci, ogni mattina, che pedaliamo non per sentirci imperatori, ma sulle orme degli imperatori. Non per ricordarci quanto siamo divisi, ma quanto il nostro continente è unito, da tutti questi confini. Per ricordarci che una randonnée è l’umiltà di non farcela, di non avere voglia o di averne persino troppa, di decidere noi come e quanto andare veloci, di sentirci finalmente piccoli, vestiti solo da colori pieni, schivando droni, contesti e prendendoci finalmente, in bici, tutto lo spazio che ci serve per viaggiare.

Ed è quasi come essere felice / 1
Ed è quasi come essere felice / 2
Ed è quasi come essere felice / 3
Ed è quasi come essere felice / 4

(continua)