VENTO Bici Tour sono le domande che si porta dietro. Dietro al bancone di un bar o dal davanzale di una finestra, chi non sa cosa sia VENTO chiede cosa, e chi sa invece chiede quando. Quando la faranno la ciclovia? Quando arrivano i ciclisti? Ma poi, cos’è VENTO? Il vento si porta le domande cui la bici darà risposta anche nel secondo weekend, da Mantova fino a Venezia. Venerdì 1 giugno, il sole schiaffeggia Palazzo d’Arco che si riempie di ciclisti appena arrivati e altri che avevano già pedalato con noi fino a Pavia.
Il vento porta le domande e l’acqua le fa affiorare. Mantova è circondata dall’acqua, fiumi che diventano laghi, e molti scelgono di entrarci proprio dentro, questo Po che mai abbandoniamo da Torino, per navigare fino a Governolo, Revere, avamposti di una terra che non è Emilia, non è Lombardia, ma ci piace considerarla fluviale e basta. Proprio all’intreccio tra Mincio e Po ci sono ostelli come i Concari a fianco di chiuse che riposano, là dove c’era l’acqua ora c’è erba, prati dove far suonare la fisarmonica e chiedersi cos’è la pianura padana, chiedersi, tra chi prova a fare cicloturismo per davvero, se esistano ancora «persone che guardano cinque anni in avanti» invece che volere tutto subito e presto. E invece in bici presto e subito sono concetti distopici, il contrario dell’utopia di una ciclovia attraversata da così tanti ciclisti, «troppi nomi da ricordare». A Revere le rive del Po si stringono per guardarsi più da vicino, «è il punto più stretto dell’intero corso – spiega Franco Mandoli che di fretta proprio non riesce ad andare – dove c’è più corrente», e le sponde si avvicinano e capita che il sindaco sia lì col grembiule a servire pane e salame, all’ombra delle Torri di Canossa, dove la storia collassa tra epoche diverse e rimane soltanto da attraversarla in bici. Non rimane più nulla da cui difendersi, se non dagli impietosi raggi del sole che non ci lasciano mai su quel biliardo dell’argine destro del Po tra Mantova e Ferrara. L’odore dei tigli prepotente stordisce e ci riprendiamo soltanto con il tiròt, la fusione tra focaccia e cipolla che solo a Felonica si può trovare, all’ombra dei tendoni della Pro Loco che mescola tè nei pentoloni come fossero pozioni magiche.
E senza nemmeno rendercene conto, cambiano i dialetti, le inflessioni, il basso mantovano diventa alto ferrarese ma è sempre Po, terra strappata all’acqua, i muri delle case sbiaditi dal tempo e dal sole. Stellata è una birra fresca come la birra dovrebbe essere d’estate, la Bunden Brau, è un corteo di cento, centocinquanta ciclisti così diversi ma sempre riconoscibili, in quel gruppo che entra ed esce dai paeselli del Po che sembrano finalmente risvegliarsi: «mi piace che ci sia movimento», dice una signora di Stellata incurante di sudore e trambusto, quando il corteo riparte verso Bondeno, la Burana, Ferrara. L’arrivo sotto al Castello al tramonto, a prenderci tutti i secondi di luce che giugno sa regalare e che sarebbe un crimine sprecare, sentirsi in viaggio, ma a casa, per noi di Witoor che a Ferrara viviamo, e che grazie a tutta questa gente in bici, da Torino a Venezia, trasforma persino le città in cui sei nato in mete lontanissime.
Al mattino a Ferrara ci sono famiglie (madrepadrefiglio) che rivendicano con orgoglio sia l’essere tornati al VENTO Bici Tour dopo la prima edizione, sia l’essere arrivati ultimi l’anno scorso. Ed è così liberatorio vedere gente normale che va in bici in modo normale, che si sente inesperta e non ha nessuna intenzione di apparire il contrario, è la bici alle prime armi, che porta domande e le risposte le fa rotolare sull’asfalto o dentro un’edicola, quando la maglia dello staff rende inequivocabile che cosa stiamo facendo e ci sentiamo rivolgere invocazioni: «speriamo che la finiscano presto, questa VENTO, perché ne abbiamo proprio bisogno». Abbiamo bisogno delle Tassoni in vetro servite al circolo Arci di Ro, dei maestri in pensione e in occhiali da sole davanti ai graffiti sull’argine a Polesella, dei pontili sul Po dove passare l’estate, delle tagliatelle messe ad asciugare sul tavolo in una stanza secondaria, nella penombra come a dover curare un segreto o un figlio che dorme, come se la sfoglia fosse un membro della famiglia che merita di stare tra sedie e seggiolini dei figli. Abbiamo bisogno degli elettrocardiogrammi fatti sui prati (grazie ai cardiologi che ci hanno seguito da Torino a Venezia!), di prendere ciò che sappiamo fare e farlo scorrere sul binario lungo il Po, incuranti del sole che picchia sul cemento dei ponti, dei cavalcavia nel Polesine, sulle nostre teste di ciclisti visionari.
Perché poi ci fosse stata una volta, in sei giorni di viaggio, in cui non ci fosse stata una sorpresa o un guizzo di umanità nei ristori lungo il percorso. A Villanova Marchesana, per esempio, un’area bonificata in golena è tornata ad essere spazio per “stare bene”, ci hanno fatto anche un rispettabilissimo campo da bocce e tra i giocatori che si dannano sulla polvere spuntano ex agenti di marketing in canottiera ora sudati, cui brillano gli occhi mentre ci raccontano i loro viaggi in bici: «una volta sono andato anche a Santiago di Compostela, eh». Eh, diciamo noi, sperando che i suoi nipoti di tutto il mondo, in un futuro chissà quanto vicino, potranno raccontare di essere andati, una volta, da Torino a Venezia in bici. Intanto le utopie ce le facciamo da soli, ricostruendo il corso degli eventi, pedalando su una ciclabile che non c’è su territori che fino all’altro ieri nemmeno esistevano: ad Adria ci spiegano come anche solo nel Seicento la linea di costa arrivava fino all’attuale statale Romea, e dopo era solo acqua, e il Delta ancora tutto da costruire. Se il Po ci ha messo qualche secolo, noi ci abbiamo messo sei giorni per arrivare sudati e innamorati fino a Papozze, dove sulle balle di fieno appaiono romantiche dediche a VENTO scritte con lo spray, come graffiti metropolitani per rivendicare promesse d’amore.
L’ultimo giorno, domenica 3 giugno, ci porta dalla ciminiera dell’ostello Amolara di Adria fino alla laguna veneziana. I ciuffi delle carote della Coldiretti a Rosolina ci fanno il solletico, assaliamo cocomeri e pesche assetati di estate, e scalpitiamo per arrivare a Venezia come quel cane sul ferry dal Tronchetto al Lido, che in mezzo al canale della Giudecca proprio non ce la faceva a stare fermo, a non voler respirare la bellezza di Venezia. Chioggia, la traversata verso Pellestrina, lo sbarco al Lido, l’ingresso nella piazzetta di Malamocco come cani che vorrebbero ancora e ancora bellezza. VENTO Bici Tour 2018 finisce di fronte a una piccola chiesa, di fronte alla finestra al piano terra dove spunta un signore in canottiera che guarda tutte quelle bici, tutta quella gente, il rosso e il bianco scintillante dell’arco gonfiabile alto quasi come un campanile, e lo vedi, che è come i cani sul pontile di una nave, lo vedi che scalpita: «Mai vista così tanta gente a Malamocco», e quasi ci verrebbe da scusarci, per avergli riempito la piazzetta di bici e trambusto, ma lui subito chiarisce il concetto: «ma no, non viene mai nessuno qui, che bello che avete portato così tanta gente, è una festa». La bici è la risposta.